È proprio il caso di dirlo: il dibattito fra detrattori e sostenitori della sopravvivenza dei dialetti non si esaurisce mai. Se, da un lato, c’è chi sostiene che facciano aumentare le difficoltà di comprensione interregionale e che siano sinonimo di bassa estrazione sociale, dall’altro lato c’è chi ne difende il valore storico e linguistico, oltre che folkloristico. Difficile dire come gli uni potrebbero convincere gli altri delle proprie ragioni o viceversa, dal momento che le argomentazioni da ambo le parti continuano a fioccare e a mietere vittime. Certo è, però, che una recente scoperta potrebbe far cambiare idea quantomeno a qualche indeciso, o far ricredere chi – alla luce della neo-notizia – sarà a favore dei benefici del dialettismo.
Ad occuparsi dello studio in questione è stato Napolen Katsos, ricercatore presso la Cambridge University, in collaborazione con i colleghi della Cyprus University of Technology e dell’Università di Cipro, che hanno condotto un’indagine su 64 bambini bi-dialettali, 47 parlanti più di una lingua e 25 in grado di esprimersi in una sola. Con le dovute differenziazioni di ordine sociale, economico, intellettivo e linguistico, i piccoli volontari sono stati sottoposti ad alcuni test volti a verificare le loro attitudini e predisposizioni, in correlazione con la quantità di idiomi usati nella vita di tutti i giorni.
«Un po’ a sorpresa – stando a quanto Katsos ha riferito alla rivista americana Quartz – i bimbi multilingue e quelli bi-dialettali hanno dimostrato un vantaggio su quelli monolingue in un punteggio composito di processi cognitivi, basato su test della memoria, attenzione e flessibilità». Ciò significa che i Paesi arabi in cui sono diffusi più dialetti, così come molti territori della Svizzera, della Spagna e dell’Italia, al pari degli Stati Uniti (in cui l’afroamericano va a braccetto con l’inglese) e del Belgio diviso fra francese e inglese, consentono alle nuove generazioni di sviluppare abilità cerebrali particolarmente elevate e preziose, per il solo fatto di esporli a un ambiente in cui si comunica in più di una forma.
La novità fondamentale consiste proprio nella non differenza, nei risultati raggiunti durante l’esperimento, fra la padronanza di due parlate ufficialmente riconosciute e quella di una lingua e un dialetto, perché «passare sistematicamente dall’una all’altra, senza fornire alla mente quella stimolazione extra, porta a performance cognitive più alte. La pluralità è una marcia in più e a tal proposito i dialetti sono sottostimati» ha dichiarato Katsos.
Si trova d’accordo con tale analisi Roberta d’Alessandro, insegnante di italianistica al Leiden University Centre for Linguistics, la quale, soffermandosi sulla situazione dello Stivale, ha fatto notare che «quelli che in Italia vengono definiti dialetti, in realtà, da un punto di vista linguistico sono lingue a tutti gli effetti. Napoletano, siciliano, abruzzese, milanese, piemontese e veneto si sono sviluppati autonomamente dal latino, senza passare dall’italiano. Molti genitori, soprattutto al Sud, hanno il terrore di far ascoltare il dialetto ai propri figli. È un errore gravissimo, perché mettono delle barriere al loro sviluppo cognitivo, che invece potrebbe essere molto più avanzato».
Non sarà forse questo a cambiare definitivamente le sorti di un’ampia discussione sull’argomento, ormai intrapresa da decenni e tutt’altro prossima a concludersi, ma è senz’altro vero che quanto constatato potrebbe influenzarla fortemente e aiutare a concentrare l’attenzione su alcuni vantaggi del dialettismo finora evidenziati poco o niente.
Fonte: Voci di Città