Scende il russo, sale il farsi. L’inglese vince sempre la sfida globale, ma da solo non basta più: il futuro è plurilingue. Ecco i nuovi report sullo stato di salute degli idiomi nel mondo.
Essere più o meno parlata nel mondo non rende una lingua più o meno influente, connessa alle altre e dunque internazionalmente potente. Lo dimostrano anche le cifre diffuse dal World Economic Forum di Davos (tratte dal quotidiano South China Morning Post, che rielaborato i dati del progetto di ricerca Ethnologue). Il cinese in tutte le sue numerose varianti (mandarino, Wu di Shanghai e cantonese in testa) è parlato, letto e scritto da più da un miliardo e 197 milioni di asiatici, distribuiti in 33 nazioni. Ma – nonostante la Brexit – l’inglese continua a vincere la sfida globale: è di casa in 110 nazioni. Lo spagnolo “solo” in 35, anche se è parlato da 399 milioni di persone, contro i 335 milioni di “English speaking”. L’arabo lo parlano in 242 milioni, in 60 paesi. Giovanni Gobber, preside della facoltà di scienze linguistiche e letterature straniere dell’Università Cattolica di Milano, commenta: «Il Global English, nei suoi vari standard, è indissolubilmente legato a quelli che noi linguisti chiamiamo i domini d’uso, che sono quelli oggi importantissimi della medicina, dell’informatica, dell’aviazione, della scienza». Continua: «Tant’è che i cinesi stanno investendo moltissimo nel suo apprendimento e nella sua promozione: l’inglese consente la comunicazione scientifica, il che vuol dire finanziamenti. I cinesi vogliono essere influenti, per loro non è economicamente interessante imporre una lingua complessa da maneggiare, e così variabile rispetto allo standard di Pechino».
E però, è la conclusione di molte analisi, l’inglese da solo oggi non basta più. Se, in parole povere, si vuole competere nell’economia globale e cercare la propria “occupabilità”, come dicono gli economisti, di lingue ne servono di più. A tal riguardo la Cardiff University’s Business School ha reso pubblico uno studio secondo il quale la mancata conoscenza di altre lingue costerebbe agli inglesi 48 miliardi di sterline ogni anno, circa il 3,5% del loro Pil. L’Economist ha calcolato che un dirigente Usa guadagna in media il 2% in più per ogni altra lingua che impara. Non un granché. Però, se le lingue le ha studiate per tempo e messe nel CV il suo primo stipendio da neolaureato è di 45mila dollari all’anno, contro i 30mila del collega monolingue. Le analisi del Mit, Massachusettes Institute of Technology, hanno chiarito tale plus: lo spagnolo vale l’1,5%, il francese il 2,3, il tedesco il 3,8. Ma il partigiano più recente e sorprendente del superbusiness multilingue è Michael Skapinker, editorialista del Financial Times. Che spiega: un manager che comunica verbalmente in inglese si semplifica la vita, e di molto; ma se si ostina a parlare solo la lingua del posto, è un furbo. Costringe gli altri ad ascoltarlo con calma, si fa ricordare per la competenza e non per la verve; le sue reazioni sono giocoforza più fredde e ponderate; e ne è temuta, nelle contrattazioni, la capacità di stanare stereotipi e abitudini controproducenti.
Quali sono allora le lingue più remunerative da imparare, affiancandole all’inglese? «L’ovvio consiglio è di scegliere quelle “necessarie”. Quindi, occorre un’analisi preliminare dello stato di salute dei principali idiomi forti», premette Gobber. Che elenca: «Del cinese saliranno i numeri ma calerà il prestigio. Il francese regge molto bene al tempo, sempre che i suoi paladini (vedi box) non lo pensino più su modello “Hexagonale” e accettino le differenze tra scritto e parlato. Sintetizzerei: stabile la sua diffusione, importante, e il suo prestigio nella cultura, nella diplomazia, nel turismo, nelle organizzazioni intergovernative come l’Onu».
Lo spagnolo non andrà mai sottovalutato: sarà stabile quanto a “valore economico” e, se non aumenterà di prestigio, lo farà per diffusione, grazie soprattutto alla culla della sua cultura rock/pop, gli Usa. Il giapponese vive una seconda primavera in una nicchia culturale legata al design e alla moda: ne è insomma percepita la raffinatezza. Come accade all’italiano, studiato molto nel mondo (è la sesta lingua più studiata, lo stanno imparando 8 milioni di persone): gode di prestigio e simpatia, è considerato fondamentale per gastronomia, arte e design. «L’arabo, in realtà stabile per diffusione (si sta affermando la varietà standard egiziana, grazie a mass media e soap opera) e prestigio, è richiesto dalla politica: occorre gente che sappia negoziare e capire le trattative», prosegue Gobber. «L’hindi sale per crescita demografica, ma cala di prestigio; la sua conoscenza andrebbe combinata con quella dell’urdu, che usa l’alfabeto arabo, in uso in Pakistan, Kashmir e a Delhi. Il tedesco, che 20 anni fa ha avuto un boom seguito poi da un tracollo, ha oggi un buon futuro: i numeri crescono leggermente, la sua cultura è in grande sviluppo. Ed è assai utile agli italiani. Il russo nel medio periodo lo vedo in affanno, per problemi di demografia e minore prestigio e sviluppo. Così come il portoghese, soppiantato dall’inglese e dallo spagnolo scelto come seconda lingua».
Gobber avverte che un buon plurilinguismo è però in bilico tra interessi e amori («le lingue si scelgono anche per simpatia e per capire il nostro posto nel mondo»). E poi si concede due previsioni: un executive acuto deve tenere monitorati il farsi dell’Iran (parlato da 57 milioni di persone) e il Bahasa Indonesia (dialetto standardizzato del malese, 60 milioni e mezzo di persone). Spiega: «L’Iran è un paese di giovani, che aspira a diventare potenza regionale. E il farsi, che utilizza l’alfabeto arabo, è un idioma indoeuropeo facile, snello, funzionale, imparentato con l’italiano. Il Bahasa dell’Indonesia è invece la lingua ufficiale del paese musulmano più popoloso, e dunque dell’Islam in Estremo Oriente». Vale la pena di pensarci.
Fonte: DRepubblica