La lingua è un bene comune: curiamola tutti

di Paola Pietrandrea

Nelle scorse settimane si è riaffacciata nel dibattito culturale italiano, per l’ennesima volta, la “questione della lingua”. Il 4 febbraio, seicento intellettuali e professori universitari hanno denunciato in una lettera destinata al governo le scarse competenze linguistiche, in particolare allo scritto, dei loro studenti, suggerendo misure volte a controllare l’operato della scuola nella formazione delle nuove generazioni. Le risposte indignate da parte di chi trovava ingiusto che si mettesse sotto accusa la scuola non sono mancate e per alcuni giorni è imperversato un dibattito, che vista la frettolosità del nostro tempo sembra essersi consumato in una sola settimana.

Ora, a parte qualche accenno sporadico, la gran parte dei contributi che hanno animato questo dibattito si sono focalizzati sul ruolo che la scuola può e deve svolgere nell’educazione linguistica degli italofoni.

Vorrei in questa sede spostare la prospettiva e argomentare che, se è ovvio che il ruolo della scuola nell’educazione linguistica è centrale, non sta solo alla scuola occuparsi della lingua.

Il presupposto da cui intendo partire è che la lingua è un bene comune e che in quanto bene comune: (i) appartiene a tutti, (ii) è soggetta a consumo (cosa che si dice poco, ma alla quale dobbiamo fare particolarmente attenzione in questo momento), (iii) può e deve essere curata da tutti.

La lingua appartiene a tutti

E’ stato Tullio De Mauro ad insegnarci che, prima ancora che un fatto cognitivo, la lingua è un fatto della comunità linguistica. Nei suoi scritti, De Mauro ha mostrato che i significati delle parole, delle costruzioni, delle frasi – i significati cioè di quelli che i linguisti chiamano con un unico termine i “segni” delle lingue naturali e che qui chiameremo “parole” in senso lato – non sono dati una volta per tutti, come quelli di altri codici, ma sono determinati ad ogni uso dai parlanti. I parlanti sanno che possono, talvolta devono, mettersi d’accordo su come determinare il significato delle parole che si scambiano per adattarlo a una situazione specifica, per estenderlo a nuove situazioni e- vedremo – per permettere alla lingua di rigenerarsi.

Va sottolineato che quando si usa il termine di comunità per parlare della comunità linguistica, si intende precisamente quell’espressione della relazionalità immediata che si crea tra gli individui, che Ferdinand Tönnies ci ha insegnato a distinguere dalla società, cioè dall’organizzazione della comunità in istituzioni fondate sulla divisione dei ruoli.

Ora, dire che i significati delle parole sono determinati dalla comunità significa dire che gli usi molteplici della lingua che si fanno in ogni istante all’interno di una comunità linguistica incidono in maniera fondamentale sull’evoluzione e più in generale sulla “salute” della lingua.

Le istituzioni (le accademie, la scuola) possono e devono guidare l’uso della lingua, ma non hanno il potere, da sole, di determinarne le sorti, a meno che non vogliano imporre un’irreggimentazione che può avere essa stessa – come argomenterò – conseguenze nefaste sulla vitalità della lingua.

O, meglio, la lingua dovrebbe appartenere a tutti

E’ stato Pierre Bourdieu, negli anni Ottanta, a mostrare in cosa possano consistere esattamente questi tentativi di irreggimentazione della lingua da parte della società, sottolineando quanto le politiche linguistiche in atto nelle lingue di cultura modifichino profondamente il modello di comunità linguistica ideale a cui abbiamo accennato.

In condizioni ideali, una comunità linguistica si organizza in un insieme complesso di sotto-comunità, ciascuna delle quali usa e alimenta una varietà, regionale, gergale, settoriale di quella lingua. Ogni individuo della comunità appartiene contemporaneamente a più sotto-comunità e ciascuna di queste sotto-comunità ha pari dignità e pari diritto di partecipare alla dinamica della lingua comune. In altre parole, in condizioni ideali, una comunità linguistica è rappresentabile non con un modello gerarchico in cui una sotto-comunità è in cima e le altre alla base della piramide, ma come un modello reticolare brulicante, non necessariamente formalizzato in strutture sociali definite. Bourdieu ha mostrato che nelle lingue di cultura, questo modello di comunità linguistica egalitario ideale subisce forme di violenza da parte della società e degli individui.

Di fatto, la varietà destinata ad essere utilizzata nelle occasioni ufficiali, che è anche la varietà usata correntemente dalle classi dominanti, finisce per essere eretta a sola varietà “corretta” e presa a misura di tutte le altre varietà. Le istituzioni, in primis la scuola – o almeno, una certa scuola poco consapevole del suo ruolo – si fanno complici di questo schiacciamento della diversità linguistica, imponendo la lingua ufficiale come varietà dominante e questo con due effetti: un’esclusione di una larga parte dei parlanti dalla vita sociale; un impoverimento della lingua.

Bourdieu ha descritto in maniera commovente, nei dettagli, il costo psicologico che gli esclusi pagano per questa sottrazione del bene comune. Più sinteticamente, ma non meno efficacemente, don Milani rappresentava l’esclusione sociale determinata dalla mancanza di accesso alla lingua ufficiale ricordando che: “Ogni parola che non impari oggi è un calcio nel culo che prendi domani”.

Questa consapevolezza è stata il motore delle lotte strenue che molti linguisti e insegnanti, Tullio De Mauro per primo nel nostro paese, hanno combattuto contro l’analfabetismo funzionale, l’analfabetismo di ritorno, l’analfabetismo tout court.

Mi preme far notare qui che l’esclusione dalla lingua ufficiale, non è l’unica forma di sottrazione della lingua alla fruizione comune. Ce n’è una più sottile, forse più attuale, per comprendere la quale dobbiamo riflettere su cosa significhi conoscere davvero una lingua.

Conoscere davvero una lingua significa appartenere al numero più alto possibile di sotto-comunità linguistiche che alimentano quella lingua: significa in altre parole avere una competenza attiva, o almeno passiva, del numero più alto possibile di varietà regionali, gerghi, varietà diafasiche, varietà diastratiche, ma soprattutto linguaggi settoriali. Tutti i membri di una comunità linguistica, potenzialmente e idealmente, dovrebbero avere accesso a tutta l’estensione del repertorio: non dovrebbero esistere discorsi formulati in italiano che un italofono non possa essere messo in grado di capire, soprattutto se quei discorsi affrontano temi che riguardano direttamente la sua vita, come l’economia, la politica, la filosofia, l’informatica.

Ora, è facile constatare che la larghissima parte dei parlanti di una lingua di cultura come l’italiano non sono messi in grado di capire un discorso formulato nel linguaggio tecnico-specialistico dell’economia, della politica, della filosofia o dell’informatica. La larghissima parte dei parlanti, anche quelli più colti, rinuncia a capire ancora prima di entrare nel dibattito. E gli specialisti, solo raramente, fanno lo sforzo di tradurre da una varietà all’altra d’italiano il contenuto dei loro discorsi.

La lingua è soggetta à consumo

Abbiamo accennato sopra al fatto che la sottrazione della lingua alla creatività spontanea dei parlanti non va solo a detrimento di una parte dei parlanti, ma anche a detrimento della lingua stessa.

Per apprezzare appieno cosa questo significhi e capire quindi perché i linguisti che hanno lottato contro l’esclusione dei più dalla lingua ufficiale abbiano lottato parallelamente contro la pratica di erigere la lingua ufficiale a unica varietà accettabile, bisogna fermarsi a riflettere tecnicamente, e non solo emotivamente, a cosa sia l’impoverimento di una lingua

Il fenomeno non è evidente, eppure le lingue non sono risorse illimitate: con l’uso si consumano.

I linguisti funzionalisti del secolo scorso hanno mostrato bene come l’uso ripetuto di una parola tenda a renderla prevedibile e quindi poco informativa. Più una parola è usata, più il suo significato si sbiadirà, diventerà generale. Peraltro, più una parola è usata, più avrà tendenza ad aumentare esponenzialmente di frequenza. Esiste infatti un’inerzia naturale nella dinamica delle lingue che spinge verso una massimizzazione dell’uso di un numero ristretto di parole già di per sé frequenti e generali. Questo fa sì che nei testi la distribuzione delle parole sia tutt’altro che omogenea: un numero molto basso di parole ricorre molto frequentemente e con un senso molto generale e un numero molto alto di parole ricorre invece molto raramente e con sensi molto specifici.

Se l’inerzia naturale che abbiamo descritto agisse sola, le lingue si ridurrebbero col tempo a codici costituiti da pochi segni con significati molto generali, perderebbero cioè di ricchezza e di efficienza.

Nella dinamica normale della lingua, però, l’inerzia naturale è corretta dal bisogno di espressione del parlante, che, volendo esprimere con precisione un significato ormai sbiadito nell’uso di una parola, può sempre far ricorso ad un’altra parola scegliendola tra i sinonimi meno frequenti, rinegoziandone il significato e immettendola di nuovo nel circuito della dinamica linguistica.

E’ a questa dinamica che ci si riferisce quando si parla di vitalità di una lingua. Questa vitalità permette, in tempi normali, alle lingue di cambiare costantemente, conservando un equilibrio naturale tra facilità d’uso ed efficacia comunicativa.

E’ chiaro che un’istituzione che irreggimenti la lingua, che promuova una sola varietà a varietà accettabile, che limiti cioè la diversità della lingua, non può che creare una lingua “anchilosata” diceva De Mauro, una lingua “semi-artificiale” diceva Bourdieu, una lingua limitata nelle sue capacità di rigenerarsi e quindi impoverita.

Per evitare questo esito, Tullio De Mauro ha militato perché l’unidirezionalità “dall’alto verso il basso” con la quale la lingua ufficiale veniva imposta dalla classe dominante a tutte le altre, fosse rimpiazzata da una circolazione ampia della lingua tra le diverse sotto-comunità di parlanti. La spinta al rinnovamento linguistico nella prospettiva indicata da De Mauro può e deve venire da ogni sotto-comunità di parlanti. Così come la regolazione del rinnovamento linguistico, che passa per l’accettazione o meno delle innovazioni, deve rimanere appannaggio di tutte le sotto-comunità.

Questo modello non particolarmente complesso è stato purtroppo negli anni male interpretato da alcuni che hanno voluto caricaturare De Mauro come un fautore della liberalizzazione sfrenata degli usi linguistici, censore di ogni forma di cura della lingua da parte della comunità.

Non è probabilmente il caso di indugiare in polemiche antiche. Mi preme di più sottolineare un fenomeno attuale che deve riproporre in modo nuovo il problema della cura della lingua da parte della comunità.

La rivoluzione digitale ha introdotto nell’uso della lingua due novità che, se non governate, potrebbero comprometterne l’equilibrio naturale: la prima piuttosto evidente è lo sfruttamento intensivo che la lingua, e in particolare la lingua scritta, subisce; la seconda, più subdola, riguarda una meccanizzazione sotterranea dei processi sempre più diffusi di scrittura.

Si legge troppo, si scrive troppo – la lingua è sfruttata intensivamente

Non esistono, a mia conoscenza, misure precise del fenomeno, ma è facile constatare che se fino a qualche anno fa, la scrittura e la lettura costituivano esercizi rari a cui ci si dedicava adottando una postura di attenzione e cura, indossando quella che Claire Blanche-Benveniste chiamava la “lingua della domenica”, ora, invece, si scrive e si legge senza pensare, anzi pensando a tante altre cose contemporaneamente.

Siamo costantemente sui social network, sollecitati costantemente dallo scritto altrui e pronti costantemente a reagire per iscritto. I tempi di attenzione che riserviamo ai fenomeni di cui discutiamo sono diventati microscopici e la lettura dell’enorme corpus a cui siamo esposti ogni giorno si fa superficialmente.

Altrettanto superficialmente e rapidamente prendiamo posizione nei dibattiti sui social, senza pensare troppo a quello che scriviamo e soprattutto senza ponderare le parole, ma scegliendole, come è normale in una situazione d’uso estemporanea, tra un numero ristretto di parole immediatamente disponibili. Non ci rendiamo conto però che di quel nostro uso estemporaneo della lingua resterà una traccia scritta che andrà ad alimentare il corpus di letture dei nostri riceventi e quindi a farsi in qualche modo riferimento, se non norma, della lingua scritta.

L’impatto che queste cattive abitudini linguistiche hanno sul modo in cui impariamo va adeguatamente studiato: non possiamo escludere che se gli studenti leggono e scrivono superficialmente, e soprattutto tendono a dimenticare quello che imparano, la responsabilità sia anche da ascrivere alla rivoluzione antropologica nella quale viviamo.

L’impatto che queste abitudini hanno sulla lingua, specie la lingua scritta, va, anch’esso studiato, ma una valutazione teorica si può già fare: è ipotizzabile che l’abuso di un numero ristretto di parole da parte dello scrivente e del ricevente porti ad una accelerazione di quei processi di erosione dei significati che abbiamo descritto sopra.

Ed è anche ipotizzabile che a questa accelerazione non corrisponda necessariamente un’accelerazione del fenomeno di compensazione naturale che rigenera la lingua. Vediamo perché.

Si automatizzano i processi della lingua – la lingua diventa artificiale

Per molti parlanti, la quasi totalità degli scambi linguistici scritti avviene attualmente attraverso piattaforme, social network e app creati con finalità commerciali.

Cominciamo ormai ad essere coscienti del fatto che questi strumenti non hanno solo lo scopo di facilitarci la comunicazione con i nostri simili, ma anche quello di prelevare informazioni che saranno utilizzate con lo scopo di tracciare il nostro profilo commerciale.

Siamo forse meno coscienti del fatto che questi strumenti possono condizionare anche le nostre pratiche linguistiche.

E’ stato Frédéric Kaplan a lanciare l’allarme qualche anno fa, mostrando come gli strumenti di controllo ortografico e di completamento automatico delle frasi messi a disposizione essenzialmente dai motori di ricerca tendano a normalizzare la lingua. E questo con obiettivi puramente commerciali.

I motori di ricerca sono, nella prospettiva di molti utenti che non maneggiano bene la lingua, utili strumenti di assistenza alla produzione linguistica scritta che permettono di verificare l’attestazione di parole e costruzioni su internet. Quei motori di ricerca, sono però, nella prospettiva dell’azienda che ce li mette a disposizione apparentemente gratuitamente, strumenti capaci di indirizzare l’utente verso la produzione di un numero ristretto di cosiddette adwords, parole che se digitate garantiranno la pubblicazione di un annuncio pubblicitario che determinerà una rendita per l’azienda stessa. Il valore commerciale di ciascuna adword è determinato da un meccanismo complesso che non descriverò nei dettagli ma che tende a privilegiare, cioè a indicare come più redditizie per l’azienda, le parole più comuni e prevedibili.

L’utente che si affida quindi a questi strumenti sarà indirizzato verso una normalizzazione della sua produzione linguistica.

Nella stessa direzione di una normalizzazione vanno i numerosi algoritmi che producono o correggono automaticamente molti dei testi pubblicati in rete.

Per una ragione o per l’altra si moltiplicano quindi sulla rete realizzazioni di modelli sintattici e lessicali semplificati che saranno comunque riprodotti più o meno coscientemente dai parlanti, almeno da quelli la cui attività di scrittura e lettura si limiti alla produzione presente su app, piattaforme e social.

C’è da temere che questo stato di cose contribuisca ad accentuare la sperequazione tra chi conosce tante parole e chi si accontenta di quel poco di diversità linguistica che trova in rete

Questo andrà ovviamente a detrimento, della giustizia sociale, ma anche a detrimento della lingua.

Se pure non ci sono da temere scenari apocalittici come un’evoluzione verso quella “neo-lingua” paventata da Orwell in 1984, resta vero però che la meccanizzazione di una parte delle produzioni linguistiche sta già permettendo che s’infiltri nella lingua una tendenza entropica alla riduzione della diversità e quindi una sclerosi dei suoi fenomeni vitali.

La lingua può e deve essere curata da tutta la comunità

Per rimediare a questa situazione possiamo tutti fare molto. E qui veniamo al terzo punto della definizione stessa di bene comune: se la lingua è bene comune, sta a tutta la comunità prendersene cura. A tutta la comunità e non solo alla scuola, come si è detto nelle ultime settimane.

Come parlanti, e soprattutto come scriventi, per esempio, abbiamo il dovere di usare e soprattutto di scrivere la lingua con parsimonia: usarla solo quando abbiamo davvero qualcosa da dire e non solo per far eco al rumore di sottofondo, usarla in maniera accurata, evitando la fretta nella produzione, prendendoci tutto il tempo che serve per scegliere parole perspicue ed eliminare parole inutili.

Come riceventi abbiamo il diritto e il dovere di rimanere esigenti nei nostri confronti e nei confronti di chi ci parla: non dobbiamo mai rassegnarci a pensare che ci siano discorsi che non possiamo capire, linguaggi settoriali che non possano diventare di nostra competenza. Di fronte a un messaggio formulato in un modo che non ci è chiaro, e che però ci interessa, abbiamo il diritto e il dovere civile di prenderci il tempo di tentare con pazienza di capire (cioè, il tempo di studiare).

A volte però non basta: tanti messaggi sono formulati talmente di fretta, o in maniera così dolosamente criptica che capire non è possibile: in quel caso possiamo anzi dobbiamo pretendere dal nostro interlocutore una riformulazione.

Come professionisti della scrittura, giornalisti, scrittori, divulgatori, abbiamo le stesse responsabilità che abbiamo da parlanti e riceventi moltiplicate però per l’ampiezza del nostro uditorio e per la facilità della nostra penna.

Come insegnanti abbiamo senz’altro la possibilità di continuare orgogliosamente la lotta che da decenni i nostri colleghi combattono contro l’esclusione linguistica.

Ma come insegnanti di quest’epoca disruptiva dobbiamo essere coscienti di stare guidando le generazioni che formiamo in un mondo che conosciamo appena, un mondo che non solo è cambiato rispetto a quello che avevamo studiato noi, ma che non smette di cambiare prima che il nostro pensiero lo afferri. Dobbiamo accettare che, a differenza dei nostri colleghi che ci hanno preceduti, il nostro compito non consiste soltanto nel farci tramite del trasferimento di una cultura da una generazione all’altra. A noi tocca soprattutto analizzare, senza giudizio o rimpianti, i cambiamenti in corso e sperimentare strategie che ci permettano di preservare in questo mondo (e non in quello che non c’è più) i valori a cui non vogliamo rinunciare.

Per fare solo un esempio tra i tanti possibili, posso riferirmi appunto alla nuova sensibilità che dobbiamo saper creare presso i nostri ragazzi nei confronti della distinzione tra lingua scritta e lingua parlata. Se dobbiamo accettare come un dato di fatto che lo scritto è sempre di meno un registro formale, monologico, caratterizzato da un tempo di produzione disteso (un registro da “lingua della domenica”), dobbiamo al tempo stesso essere pronti a insegnare ai nostri ragazzi che accanto allo scritto dialogico, rapido e informale che essi hanno il diritto di usare come vogliono nei loro scambi fra pari, esiste (perché ancora esiste) uno scritto monologico, formale che è da ponderare, prezioso, da non “spiegazzare” come non si spiegazza l’abito della domenica. Si tratta di due registri completamente diversi, di cui è bene che i nostri ragazzi si approprino in maniera completa, senza pregiudizi sulla superiorità dell’uno rispetto all’altro, accettando solo di conoscerne e rispettarne le differenze, adattandovisi con pazienza.

Come linguisti, e più in generale come specialisti delle scienze umane, possiamo, anzi dobbiamo studiare gli effetti che sfruttamento intensivo e parziale automatizzazione della lingua hanno sul cambiamento linguistico. Dobbiamo rinunciare alla critica affrettata, o peggio alla valutazione morale dei fenomeni che ci circondano, e porci il problema di determinare scientificamente se e in quali limiti siamo davvero di fronte ad un impoverimento della lingua, quali ne siano eventualmente le cause – che, possiamo immaginare, vista la complessità dei sistemi linguistici, non si limiteranno senz’altro a coincidere con le insufficienze della scuola – e quali le soluzioni. Tutto questo processo avrà un senso solo se prenderà la forma di programmi di ricerca larghi, strutturati, coordinati e finanziati che permettano di affrontare l’argomento seriamente.

A questo punto diventano chiare anche le responsabilità della classe politica, che dovrà pensare a come sostenere adeguatamente la ricerca in scienze umane, tradizionalmente trattata come la Cenerentola dei programmi di finanziamento. E che dovrà resistere alla tentazione di imporre al sistema educativo riforme su riforme con obiettivi puramente propagandistici, senza aspettare che una riflessione opportuna sia davvero maturata.

Insomma, se la lingua è un bene comune, abbiamo tutti due responsabilità: continuare a lottare come ci ha insegnato Tullio De Mauro, perché tutti i parlanti abbiano accesso a tutte le varietà del repertorio, e prenderci tutti cura della nostra lingua. La cura richiede tempo. Dobbiamo prenderci il tempo che serve a usare la lingua come si deve. Non c’è granché da delegare: sta a tutti noi, quotidianamente, mantenerla efficiente, potente, ricca, varia e viva. E studiare i modi per continuare a farlo.

 

Fonte: MicroMega (Repubblica)

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