Liberi dall’imperialismo linguistico inglese: una lingua per l’Europa del post Brexit

In un’Europa ancora ferita dalla Brexit e divisa tra euroscettici gongolanti ed europeisti che minimizzano, in molti sostengono che l’inglese non dovrebbe più essere la lingua ufficiale dell’Unione Europea.

Qualcuno, come se l’Unione non fosse già abbastanza germano-centrica, ha proposto il tedesco. Qualcun altro il francese in nome dell’antica grandeur. Qualcuno, ma solo in Italia, ha suggerito persino di rilanciare l’italiano come lingua ufficiale per la UE.

Sembra che la partita per il titolo di lingua egemone si debba giocare tutta nella tensione tra l’utilità economica di ciascuna lingua e il suo supposto valore simbolico, ideologico e politico. In barba a trattati UE, propagande politiche e nazionalismi, toccherà accettare che l’epoca delle lingue nazionali sta volgendo al termine e che è l’inglese, da almeno 50 anni, la lingua del business, del web, della tecnologia e della ricerca (e, giova ricordare, non per merito diretto degli inglesi).

Ancora più profondamente e diffusamente della koinè dialektos dell’epoca ellenistica e del latino in epoca imperiale, l’inglese non può essere considerato né come una semplice lingua franca, utile alle comunicazioni tra persone che parlano lingue terze, né come la lingua degli inglesi: è semmai la lingua in cui il mondo compete, accede alla conoscenza e la diffonde.

È la lingua del nostro pianeta che inizia a pensarsi come un tutto e che come tale appartiene a ogni essere umano. È, oggi più di ieri, la lingua di tutti e di nessuno. Si tratta di un processo culturale immenso, la cui portata non è stata ancora del tutto compresa.

Ludwig Wittgenstein, padre della filosofia del linguaggio, scrisse: “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. Quanto grandi vogliamo che siano i suoi confini? Vogliamo auto-imporci dei limiti o ambiamo a espanderli nella maniera più inclusiva possibile? Oggi abbiamo la possibilità di scegliere se mettere la testa sotto la sabbia, giocando come i bambini ad avere una lingua segreta, oppure se abbracciare la sfida globale e diventare, finalmente, padroni dell’inglese.

Io, che appartengo alla generazione Erasmus, che parlo correntemente tre lingue (e male altre due), che ho vissuto tra Spagna, Stati Uniti e Germania, ho un sogno: un’Europa forte e unita che, dopo avere abbandonato il multilinguismo a tutti i costi, si appropri e usi l’inglese come lingua ufficiale.

Sogno un’Europa che, pur non rinunciando alle differenze culturali e alle proprie lingue (memoria collettiva e identità), e anzi investendo sulla formazione di giovani europei colti e poliglotti, sia al contempo capace di appropriarsi dell’Inglese come lingua comune.

Appropriazione significa mettere in atto processi di stratificazione e imbarbarimento dell’inglese scolastico, che permetteranno di approdare ad una nuova variante: un nuovo standard d’inglese internazionalmente riconosciuto come valido e che alcuni chiamano Euro-English o ELFE (English as a Lingua Franca in Europe).

Tutt’altro che fenomeno teorico, l’Euro English è l’inglese imbastardito che in milioni utilizziamo già quotidianamente. Una lingua quanto mai viva, usata in questo preciso momento da un ricercatore italiano e la sua collega greca mentre lavorano ad un progetto nucleare in Francia, o da un imprenditore spagnolo, mentre cerca di vendere il suo jamón ad un importatore cinese.

Bisogna dunque riconoscere innanzitutto che questa lingua nuova:

  • È indipendente e distinta dall’Inglese parlato dai madrelingua.
  • Non è alternativa alle lingue europee e alle loro eredità culturali (che sono una ricchezza).
  • Ha il potenziale per diventare una sorta di passaporto linguistico globale, attributo e diritto di ogni europeo (e non solo).

Occorre a questo punto uno sforzo che, partendo dall’osservazione empirica dell’uso dell’Euro-English, sia capace di descriverlo e infine di estrapolarne delle norme, basate sulle sue proprietà e caratteristiche. In altre parole penso che sia necessario canonizzare l’Euro English in una qualche forma di grammatica e che questa variante venga adottata come standard europeo.

Mentre linguisti e studiosi di vario tipo potrebbero fornire il necessario supporto accademico, le aziende capaci di applicare tecnologie informatiche e analisi di big data sulla lingua potrebbero giocare un ruolo fondamentale nell’estrazione di pattern linguistici ricorrenti.

È un processo lungo, che richiede tempo, coraggio e risorse, ma la posta in gioco è enorme. Come dei novelli Prometeo abbiamo l’occasione storica di sottrarre agli inglesi il monopolio sulla loro lingua e liberare noi stessi e il mondo dal loro imperialismo linguistico. È un’occasione unica, un esercizio di democrazia, e allo stesso tempo l’unica strada per preservare la nostra lingua e le nostre identità culturali.
Come recita il motto dell’Unione: “United in diversity”.

 

Fonte: Huffington Post

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