Lingua a rischio sparizione: in difesa del dialetto

Magari si potrebbe fondare un’Accademia della Crusca del dialetto bresciano, che lavori a un dizionario «ufficiale» bresciano-italiano



La notizia che il jeru, l’olekha e il bovese non moriranno rincuora e fa riflettere. Scoprire (ne ha scritto il Corriere della Sera a Gennaio) che una miliardaria finanzia l’Università di Londra che censisce, cataloga e archivia le lingue a rischio di estinzione attiene alle buone notizie che – dopo l’ammirazione – dovrebbero indurre all’azione. «Quando una lingua muore – l’ha insegnato un grande intellettuale come George Steiner – un modo di intendere il mondo, un modo di guardare il mondo muore insieme ad essa». Forse è ora di chiedersi se i bresciani intendono salvare, e come, e quando, la propria lingua, il dialetto. Non la salveranno i comici che la mettono in burla e calcano la mano (e la voce) sulle gutturali, sulle cadenze, sui pota . Non la salveranno i sindaci che lo brandiscono come una clava, e mettono i nomi in dialetto dei paesi sui cartelli per far capire che lì comanda (o ha comandato) la Lega. Non la salveranno neppure i cento e più ardimentosi che hanno aderito al rinato concorso di poesia vernacolare dei Santi Faustino e Giovita: il rischio di ritrovare tanti emuli del Canossi, fra mìgole e melgàs , è forte. Ridiamo quando un immigrato spiccica qualche parola in dialetto; ignoriamo che Paolo VI, con i familiari e con gli amici, parlava in bresciano. Da dove ricominciare, dunque? Magari da un censimento, per capire quanti ancora parlano il dialetto e quanti almeno lo capiscono. Oppure dalla conclusione del poderoso Atlante demologico concepito da don Antonio Fappani, portato avanti dalla Fondazione civiltà bresciana e ancora incompiuto: perché non è indifferente sapere, carta geografica alla mano, dove un ragazzo si chiama poetèl , dove s-cèt e dove gnaro . Magari si potrebbe fondare un’Accademia della Crusca del dialetto bresciano, che lavori a un dizionario «ufficiale» bresciano-italiano. O si potrebbe tornare a far studiare a memoria qualche poesia del Canossi, come capitava a noi bambini (e non ce ne siamo pentiti): da L’esordio dè le dés zornade a Èl presepio dè Giacumì . Andrebbe salvaguardata come patrimonio immateriale la toponomastica millimetrica censita dallo Gnaga, dalla valle Abè (Abbio) sopra Capovalle alle case di Süsü (Zuzù) tra Levrange e Zovo. Siamo innamorati dei sapori a chilometro zero e stiamo perdendo il gusto, i suoni, gli echi, la bellezza delle parole a centimetro zero: fiorivano sulle labbra dei nostri genitori, hanno accarezzato le nostre orecchie da bambini. E, un po’, ci hanno formato.

Fonte: brescia.corriere.it

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