L’azienda italiana continua a parlare poco (e male) l’inglese

Who speaks english? Nelle aziende italiane, poco i dipendenti e meglio i quadri intermedi dei manager. Il tutto, nonostante le aziende continuino a spendere (+7% nel 2015 sul 2014) . I Paesi Bassi al primo posto – insieme agli Scandinavi – e l’Iraq (40°) a chiudere la classifica. In mezzo – 20° posto – l’Italia con un livello di conoscenza dell’inglese in crescita del 7,92% rispetto al 2014. Ma che ancora si colloca nell’area intermedio-bassa e con molte differenze da settore a settore.

A fotografare lo “stato di salute” dell’inglese nelle aziende e EF Corporate Solutions– divisione ad hoc per la formazione linguistica nelle imprese della grande società internazionale che da anni organizza dalle vacanze studio ai corsi di inglese online e per tutti – su un panel, più ampio rispetto all’edizione precedente del 2014, costituito da 510mila persone testate, appartenenti a 2.078 aziende.
Il report differenzia i risultati relativi al livello di inglese dei partecipanti non solo in base al Paese di provenienza ma anche a 16 settori di appartenenza. I professionisti coinvolti, al momento del test – spiegano da EF – non erano iscritti ad alcun corso di inglese e i risultati della prova sono stati utilizzati esclusivamente per la redazione dell’indice “English Proficiency Index” che ne attesta il livello di conoscenza linguistica su una scala da 0 a 100 e denota.

La classifica per Paese
L’Europa occupa i primi 5 posti del ranking mondiale, con i Paesi Bassi che guidano la classifica con un punteggio di 73,83, a testimonianza di una competenza linguistica di livello upper intermediate (intermedio-alta).
Seguono, a poca distanza, i Paesi Scandinavi, nello specifico: Danimarca (72,04), Svezia (71,71), Norvegia (71,27) e Finlandia (69,18). Mnetre Filippine (67,38) ed Emirati Arabi Uniti (66,10) sono i primi Paesi non europei che compaiono in classifica e ricoprono, rispettivamente, il 6° e il 7° posto.
L’Italia si trova a metà della graduatoria, al 20° posto, con un indice di conoscenza dell’inglese di livello intermedio-basso, con il punteggio di 58,61. Chiudono la classifica, con una competenza linguistica molto bassa, Venezuela (45,33), Costa Rica (43,96), Tailandia (39,62), Arabia Saudita (37,97) e, all’ultimo posto, Iraq (33,64).
In pratica, 7 dei 10 Paesi più competenti sono in Europa (i primi 5 della classifica e il Portogallo, all’8° posto) e 6 di quelli meno competenti, invece, si collocano in America Latina (Cile, Perù, Brasile, Colombia, Venezuela e Costa Rica).

La classifica per settore
A livello mondiale, la consulenza e i servizi professionali sono in testa alla classifica, con un punteggio di 59,97, per una competenza di livello intermedio (il cosiddetto B1 del Quadro di riferimento europeo).
Seguono, a distanza di due punti, il settore Ingegneria (57,50) e quello del Food&Beverage (57,19). Al quarto posto troviamo contabilità, banche e finanza e IT al quinto, con un punteggio rispettivamente di 57,18 e 56,56. In fondo alla graduatoria, con un livello di inglese molto basso, il settore della Difesa e della Sicurezza (47,50) l’Istruzione (42,82), il Settore Pubblico (41,94) e, in ultima posizione, la Logistica (40,87). Inoltre, quello che emerge è che in non pochi settori, i manager intermedi parlano e scrivono inglese meglio dei dirigenti che li hanno assunti . Ma qui può entrare in gioco il fattore età. Spesso al top ci sono profili di esperienza ma più “anziani”, formatisi quando l’inglese si studiava poco o per nulla e che lo hanno appreso “strada facendo”. Mentre i quadri intermedi – quelli più giovani che andranno a sostituirli – sono un passo avanti, sotto il profilo linguistico.

«Il dato più preoccupante – spiega Cristina Sarnacchiaro, Country manager Italia di EF Corporate Solutions – è quello che vede il settore dell’istruzione (cioè gli insegnanti di ogni ordine e grado) e la Pa in fondo alla classifica delle competenze. Sia perchè dalla scuola dovrebbe passare una conoscenza non solo minima, ma anche una curiosità per le lingue e la possibilità di veicolare in inglese materie e argomenti diversi (i cosiddetti clil). Oltre al fatto che la società è sempre più cosmopolita e anche i servizi pubblici dovrebbero sapersi organizzare per venire incontro a “clienti”, siano essi immigrati o turisti, che parlano lingue diverse».
In generale, conclude Sarnacchiaro, «In Italia le aziende internazionalizzate e/o che esportano e producono all’estero hanno sicuramente un nucleo di dipendenti e manager che parlano inglese ad un livello da minimo a discreto. Ma non tutto il personale. E spesso capita che in alcune Pmi non siano più di 5 o 10. Se queste figure vengono a mancare, capita anche che nessuno sia in grado di sostituirle sotto il profilo linguistico. Le aziende, soprattutto grandi, continuano a spendere in corsi di lingue, ma spesso ciò viene percepito come un benefit non misurato nella sua efficacia, oltre al fatto che spesso al corso non seguono vere occasioni di “esercitarsi” e utilizzare la lingua nelle proprie mansioni, riducendone, così, l’efficacia»

Alcune settimane fa anche la Commissione Ue, attraverso Eurostat, aveva stilato una classifica sulla conoscenza dell’ingles etra i cittadini dei diversi Ue, sostanzialmente “bocciando” il lvello complessivo degli italiani, sotytolineando quanto la conoscenza di questa lingua incrementi le possibilità di trovare lavoro. Dato, poi, particolarmente rilevante se si nota che in Italia il 38% dei giovani non ha un’occupazione e che nel 23% dei casi il fallimento durante i colloqui di lavoro è dovuto alla mancata conoscenza dell’inglese.

Fonte: www.ilsole24ore.com

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *